23.3.13

quelle lettere...










le storie d'amore difficili, sofferte. Gli amori non ricambiati. Il sublime nel formulare scritti, quando si tratta di due poeti...

Amalia Guglielminetti e Guido Gozzano.



Martedì  - 24 marzo 1908
Perché mi fate piangere, Guido, perché mi fate rimpiangere quel poco che v’ho dato di me?
Non dovevo venire con Voi quel giorno per soffrirne dopo, così, per vedermi tolta anche la piccola dolcezza di sentirvi qualche volta vicino.
E così poca cosa la vita e così breve per negarci qualche poco della sua bellezza per tormentarci volontariamente anche quella piccola parte di bene che ci concede?
Voi vi dite corazzato anzi insensibile ad ogni ferita. Io no, mio dolce Amico, o vi voglio bene e soffro crudelmente di sentirvi tanto lontano.
Mi pare di trovarmi più sola in quest’ombra grigia di banalità che ci circonda, sento d’aver smarrito qualche cosa di più leggero, di più chiaro, di più elevato, l’amico che mi comprende, il fratello che sogna i miei sogni e gioisce della mia gioia, la tenerezza che blandisce e riscalda il cuore.
Io non voglio che tu mi sfugga, Guido, io non voglio che tu mi segua di lontano come un estraneo, che tu mi riveda ancora un giorno lontano quando forse i miei capelli non saranno più tanto bruni e la mia bocca fresca e i miei occhi lucenti.
Lascia ch’io ti dica tu come un compagno, ch’io non senta fra noi il gelo di quella parola dura.
Io ti sono compagna ora senza tremori e senza fremiti, sorella della tua anima.
Io ti saprei baciare la fronte con un sorriso sereno come si bacia un bambino.
No, noi non abbiamo ancora sepolto nulla di noi stessi.
Io sono per te come il primo giorno che ti vidi, non sazia, né stanca, né oppressa dalla più piccola parte di te.
Sei nuovo e fresco al mio spirito come allora che m’eri ignoto.
Ogni tua parola è come una piccola luce che ti rischiara un momento
e ch’io guardo risplendere con gioia nuova ogni volta che tu parli.
E un senso strano ch’io non so dire, ma che non ho mai sentito per altri, una malia, quasi, che è credo, una occulta profonda fraternità, un oscuro legame spirituale che ci unisce anche nostro malgrado. Ma tu non provi questo fascino, lo so, poiché mi respingi dopo alcune ore di comune vita, mi allontani con un gesto che mi pare un urto di disdegno.
Forse io non sono stata con te, quel giorno, quella della tua attesa.
(Amalia Guglielminetti)


30 marzo 1908
Rileggo ogni giorno la tua lettera, mia buona Amalia, con una grande malinconia. E indugio nella risposta, preso da un’indolenza dolorosa: forse perché non so bene come dirti…Da molti giorni sono in casa ed ho l’anima morbosamente assopita, incerta di tutto come in un sogno. Penso a tante cose, sopra tutto, avvenire; e penso anche a te, con molta tenerezza e con molta serenità.Sento in fondo all’anima una specie di fiera tristezza, per aver saputo essere crudele con me e forse — perdonami — anche un po’ con te…Io provo una soddisfazione speciale quando rifiuto qualche bella felicità che m’offre il Destino. E quale felicità, Amica mia!Il nostro amore che sarebbe fiorito con tutti i fiori della primavera torinese! (così dolce per l’esule che ritorna!) anche la stagione sarebbe stata propizia alla nostra follia! E quanti mesi di serenità, di sole, di profumo! E quanti sogni! Avremmo voluto pellegrinare la nostra passione in tutti i dintorni favorevoli al sentimento: quanti sogni! Io li ho già sognati tutti e t’ho già vista in tutti: con a sfondo i paesi sconosciuti, le viuzze di provincia dove si sarebbe delineata al mio fianco la tua svelta parigina figura primaverile. Io non vedrò le tue vesti nuove. Sarò lontano, solo, con la mia ambizione taciturna: una compagna ben più crudele della tua malinconia… Perché non confessartelo, mia buona sorella? L’ambizione da qualche tempo mi artiglia in un modo atroce.Non sento non vedo non godo non soffro di altro.Come puoi tu, che pure hai tra le mani i germi di mille speranze e segni la stessa mia via, come puoi rivolgere ancora le forze della tua giovinezza verso altri destini? Per me, camminando diritto, con l'occhio fisso alla mia meta lontana (o quanto!) tutto è secondario e trascurabile: gioie e dolori: tutto, perfino la tua bellezza sulla quale mi sono chinato un istante, come su un fiore, al margine del sentiero, ma dalla quale mi separo tosto, perché arresterebbe di troppo il mio passo tranquillo…Ah! Se io potessi darti una parte soltanto di questo mio orgoglio latente, anche il dolore che tu dici di avere in te impallidirebbe e l’amore ti apparirebbe qual è: un inganno della giovinezza e un episodio trascurabile in un destino come il mio e come il tuo. E mai come in questi tempi che tale smania mi fa soffrire, ho avuto tanto disprezzo per le mie attitudini artistiche e ho tanto sentito la necessità di affinarle con lo studio, con la meditazione, col silenzio. Tu hai ancora l’avidità di cogliere fiori e di godere l’ora che passa: per me anche la lusinga del piacere mi è intollerabile come un ostacolo sul mio sentiero. Amalia, mio buon amico, quante di queste cose t’avrei detto e ti vorrei dire se tu non fossi giovine e bella!  Ma hai degli occhi luminosi ed una bocca tentatrice ed è impossibile starti vicino senza diventare irriverenti con te come con una crestaia od una cortigiana qualunque… Ho rilette queste sei pagine, amica mia: oimé! Parlo, parlo, e, sopra tutto, ragiono: quanto devo farti soffrire! E anche sdegnare. Perdonami.Perdonami. Ragiono, perché non amo: questa è la grande verità. Io non t’ho amata mai. E non t’avrei amata nemmeno restando qui, pur sotto il fascino quotidiano della tua persona magnifica; no: avrei goduto per qualche mese di quella piacevole vanità estetico-sentimentale che dà l’avere al proprio fianco una donna elegante ed ambita. Non altro. Già altre volte l’ho confessata la mia grande miseria: nessuna donna mai mi fece soffrire; non ho amato mai; con tutte non ho avuto che l’avidità del desiderio, prima, ed una mortale malinconia, dopo…Ora con te, che sei il più eletto spirito femminile ch’io abbia incontrato mai, e con te che dici di amarmi, sono stato sempre e voglio essere ancora sincero: non ti amo. E la risoluzione più leale da parte mia è il distacco. Partirei pur non dovendo partire. Invece il Destino è propizio: m’impone l’esiglio anche per altre cause ch’io tolgo a pretesto.Rivederci? A che scopo? Un colloquio di più nulla aggiungerebbe (o sottrarrebbe forse) alla fraterna benevolenza che noi dobbiamo portare l’uno dell’altro.
Addio, mia buona amica! Ti bacio.
(Guido Gozzano)






30 marzo 1908 – risposta immediata
Caro Amico, vi pensavo più buono di quanto vi dimostrate. Credevo di meritare almeno una parola di risposta se vi pareva troppa concessione accordarmi una visita come vi chiedevo. Un’amicizia come la nostra non deve morire così fra la vostra indifferenza inerte e la mia esasperata tristezza.Perché io non credo possibile per Voi e per me una fedeltà che resista alle lontananze e agli oblii. Siamo entrambi troppo egoisti per i culti essenzialmente spirituali. Mi costringete a mendicare dagli amici vostri le vostre notizie con parola leggera e anima febbrile.Mi costringete a mendicare da Voi una condiscendenza che non dovrebbe esservi grave.E mi è duro, sapete, curvarmi così. Vorrei parlarvi di cosa che non posso affidare a una lettera. V’aspetterò a casa mia mercoledì fra le quattro e le cinque, o, se preferite un luogo aperto, giovedì alle tre e mezza laggiù a’ piedi della collina dove già v’ho atteso una volta soffrendo.Non rispondetemi se vi pesa, ricordate solo ch’io v’aspetterò con intenso desiderio, e che vi prego di venire.
……………………….

Stamani io scrivevo questo mentre tu forse aggiungevi per me tristezza a tristezza nello otto pagine della tua lettera.
Non distruggo e non disdico il mio biglietto.
Ho troppa sete di te per saziarmi delle tue parole amare.
Non è vero ch’io abbia cose segrete a dirti, era una menzogna per indurti a venire.
Porta pure con te la tua ambizione, la tua freddezza, la diffidenza che hai verso di me.
Sarà meglio, forse mi guarirai; ma non inasprire ancora il mio male con un rifiuto.
Se anche non mi ami perché vuoi ch’io ti perda?
Perché vuoi farmi sentire così nera così crudele la mia solitudine, così completo il mio isolamento?
Ah! la gloria, Guido, come ne sogghigno!
Io non so come tu possa amare sognare darti a una così vacua cosa.
Io voglio più bene a te che alla gloria, quella non mi farà mai piangere né aspettare in ansia.
(Amalia Guglielminetti)



Poesia

Un addio

Folle è lasciarci, tutti accesi ancora
di desiderio, ancor pronti a godere
di tutto ciò che l'un dell'altro ignora.

La volontà che tiene prigioniere
le nostre giovinezze le flagella,
per farle in solitudine tacere.

Ma più le volge incitatrice a quella
gioia non mai gioita, che la morte
pur ci farebbe nel suo riso bella.

Più dolce sorte è la comune sorte :
darsi con umiltà l'un l'altro, ciechi.
Abbandonarsi al vortice più forte

e dirsi dopo un breve addio, senz'echi.

Amalia Guglielminetti



  
il quadro centrale è di A.Alciati - Il Convegno

22.3.13

Ambrogio Alciati





Il Convegno - 1918



John Donne







Rimandami i miei occhi vagabondi,
che troppo son rimasti su di te,
ma se da te hanno appreso qualche vizio,
affettazioni, false passioni,
e me li hai resi buoni a distinguere
più un accidente, allora tienli pure.

Rimandami anche il cuore mio innocente,
che non aveva macchia di bassezza,
ma se dal tuo dovesse aver appreso
a far giochetti scuse e trucchetti,
a imbrogliare parole e impegni
tientelo pure: non è roba mia.

Ma sì, mandami indietro cuore ed occhi,
ch’io sappia e veda quanto sei bugiarda,
e goda e rida mentre tu ti stai struggendo
e tormentando per qualcun’altro
che non ti fila, o si dimostra falso come te.









20.3.13

Alfonsina Storni




 
Denti di fiori, cuffia di rugiada,
mani di erba, tu, dolce balia,
tienimi pronte le lenzuola terrose
e la coperta di muschio cardato.

Vado a dormire, mia nutrice, mettimi giù.
Mettimi una luce al capo del letto
una costellazione; quella che ti piace;
tutte van bene; abbassala un pochino.

Lasciami sola: ascolta erompere i germogli...
un piede celeste ti culla dall'alto
e un passero ti traccia un percorso

perché dimentichi... Grazie. Ah, un incarico
se lui chiama di nuovo per telefono
digli che non insista, che sono uscita...





17.3.13

Edna St.Vincent Millay



Viene descritta come una donna affascinante, ricca di talento, appassionata di teatro  e ottima attrice, libera pensatrice e pianista sensibile, affascinante seduttrice e femminista convinta. I versi di Edna venivano letti in tutte le università degli Stati Uniti e apprezzati da molti letterati dell'epoca con i quali la poetessa aveva stretto amicizia.
Insignita del Premio Pulitzer nel 1922, premio mai assegnato prima ad una donna, Edna voleva diventare "un poeta serio" e per più di quarant'anni ella scrisse con passione opere di ogni genere tra problemi sociali e difficoltà personali con un linguaggio ironico capace di avvicinarsi ai toni della satira violenta come a quelli romantici. "Tra breve ti scorderò, mio caro" è dunque la storia di una ragazza che possiede un talento naturale per la poesia. Nata nel 1892, cresce in una famiglia per quel tempo molto anticonformista, con una madre intelligente e aperta ai problemi delle tre figlie; sarà lei ad incoraggiare per prima la vocazione della figlia. Edna cresce anticonformista e curiosa e si sente spesso oppressa dal luogo in cui vive, ma un giorno, dopo aver acquisito una certa notorietà con le sue prime pubblicazioni, riesce a partire e raggiungere New York. Bella, affascinante, passionale, è senza dubbio una donna libera e indipendente. Irrequieta e sfortunata nei rapporti amorosi, è desiderosa di continui cambiamenti che la conducono in Europa e poi nuovamente negli Stati Uniti.
Seguono per lei anni difficili. Si ammala e diventa più fragile e bisognosa di cure e attenzioni che, fortunatamente, trova in Eugen Jan Boissevain che sposa nel 1923.
Si trasferisce con il marito a Steepleton, nello stato di New York, e si impegna politicamente nella questione degli anarchici Sacco e Vanzetti, ma l'esito infelice del suo impegno e le critiche che le arrivano da uomini politici e da alcuni intellettuali la scoraggiano; per un certo periodo, quindi, si ritira a comporre, apparentemente paga della sua poesia e del suo matrimonio.
Ma questo periodo dura poco e presto arriva una nuova ventata di passione, nelle vesti di un ventenne poeta, del quale si innamora e al quale dedica vibranti liriche d'amore. Passa il tempo ed Edna, colpita da nuovi problemi di salute, ritorna al marito, alla morfina e all'alcool. La sua fine, in un certo senso spettacolare, non sarà diversa da come è stata la sua vita.

Ribelle e anticonformista, diventa popolare negli anni Venti tra i giovani newyorkesi del Greenwich Village per i suoi versi contro le convenzioni morali e inneggianti alla libertà personale. Qualche fico nei cardi (1920) è la raccolta dal tono bohémien che le dà in quegli anni un grande successo. Donna dall’intelligenza acuta e autonoma, dalla personalità spiccatamente anticonvenzionale, Edna dedica buona parte dei suoi testi lirici all’amore, ma con un’imprevedibile e spiritosa vena d’autoironia.






Cosa sarai mai tu, che ti desidero,
Da rimanere insonne
Tante notti quanti i giorni
A piangere per te?
Cosa sarai mai tu che, che se mi manchi,
nell'intreccio dei giorni
Io resto sempre intenta al vento
E fissa alla parete?
Conosco un uomo di migliore tempra
e almeno venti altrettanto gentili,
Che cosa sarai mai tu, per essere 
Il solo uomo nella mia mente?
Tuttavia i sentimenti delle donne sono stupidi,
Come ogni saggio potrà dire, -
E chi sono io, che dovrei amare
Così saggiamente e così bene.


Il filosofo

Banana Yoshimoto


composizione fotografica Tim Walker




Sai, a dormire accanto a delle persone così stressate, regolando il mio respiro su quello del loro sonno, forse finisco con l'assorbire tutto il buio che hanno dentro. A volte, mentre mi dico che non mi devo addormentare, mi capita di appisolarmi leggermente e di fare dei sogni paurosi, surreali. Sogno di essere a bordo di una nave che sta affondando, di perdere delle monete che avevo raccolto, o sogno il buio che entra dalla finestra e mi soffoca... Mi sveglio col cuore in gola, spaventata. Si, ho proprio paura. E guardando la persona che dorme accanto a me, penso: Ma certo, quello che ho appena visto è il suo paesaggio mentale. E se penso a che visione desolata, dolorosa e brutale, quella persona porta dentro...ho paura.


Sonno Profondo

Emily Dickinson








 Ci abituiamo a poco a poco al buio
quando la luce è scomparsa ai nostri occhi,
come quando il vicino tiene in mano
il lume, testimone del suo addio.
Per un momento camminiamo incerti,
la novità della notte ci avvolge,
poi la visione si adatta alle ombre
ed avanziamo ritti sul sentiero.
Così accade in tenebre più vaste,
in quelle notti della nostra mente
quando a svelare un segno non c'è luna,
né sorge alcuna stella dentro l''anima.
I più audaci vanno un po' a tastoni,
e sbattono talvolta con la fronte
contro un albero, colpendolo in pieno.
Ma non appena imparano a vedere
o la tenebra non è più la stessa,
o qualcosa si aggiusta nella vista
adeguandosi alla notte fonda,
e la vita procede quasi dritta.



14.3.13

Alfonsina Storni







Potrebbe essere che ciò che nel verso ho sentito
Non fosse altro che ciò che mai ha potuto essere,
Non fosse altro che qualcosa di vietato e represso
Di famiglia in famiglia, di donna in donna.
Dicono che nei solari della mia gente, era indicato
tutto quello che si doveva fare...
Dicono che le donne della mia casa materna
fossero silenziose... Ah, bene poteva essere...
A volte in mia madre spuntarono desideri
di liberarsi, ma le saliva agli occhi
un'onda di amarezza, e nell'oscurità piangeva.
E tutto questo travaglio, vinto, mutilato,
Tutto questo stava racchiuso nella sua anima,
Penso che senza volerlo, io l'ho liberato.





12.3.13

Alessandro Baricco







..."Eppure, per quanto indubitabilmente sia meravigliosa la luce della sera, c'è qualcosa che ancora riesce ad essere più bello della luce della sera, ed è per la precisione quando, per incomprensibili giochi di correnti, scherzi di venti, bizzarrie del cielo, sgarbi reciproci di nubi difettose, e circostanze fortuite a decine, una vera collezione di casi, e di assurdi - quando, in quella luce irripetibile che è la luce della sera, inopinatamente, piove. C'è il sole, il sole della sera, e piove. Quello è il massimo. E non c'è uomo, per quanto limato dal dolore o sfinito dall'ansia, che di fronte a un'assurdità del genere non senta da qualche parte rigirarsi un'irrefrenabile voglia di ridere.
Poi magari non ride, veramente, ma se solo il mondo fosse un sospiro più clemente, riuscirebbe a ridere. Perche è come una colossale e universale gag, perfetta e irresistibile. Una cosa da non crederci. Perfino l'acqua, quella che ti casca sulla testa, a minute gocce prese di infilata dal sole basso sull'orizzonte, non sembra neanche acqua vera. Non ci sarebbe da stupirsi se ad assaggiarla si scoprisse che è zuccherata. Per dire. Comunque acqua non regolamentare. Tutt'una generale e spettacolare eccezione alle regole, una grandiosa presa per il culo di qualsiasi logica. Un'emozione. Tanto che tra tutte le cose che poi finiscono per dare una giustificazione a questa altrimenti ridicola abitudine di vivere certo figura anche questa, in cima alle più nitide, alle più pulite: esserci, quando in quella luce irripetibile che è la luce della sera, inopinatamente, piove. Almeno una volta, esserci..."



Castelli di Rabbia

11.3.13

Emily Brontë








Non dovresti conoscere la disperazione
se le stelle scintillano ogni notte;
se la rugiada scende silenziosa a sera
e il sole indora il mattino.
Non dovresti conoscere la disperazione,
seppure le lacrime scorrano a fiumi:
non sono gli anni più amati
per sempre presso il tuo cuore?
Piangono, tu piangi, così deve essere;
il vento sospira dei tuoi sospiri,
e dall’inverno cadono lacrime di neve
là dove giacciono le foglie d’autunno;
pure, presto rinascono, e il tuo destino
dal loro non può separarsi:
continua il tuo viaggio, se non con gioia,
pure, mai con disperazione.



10.3.13

Anaïs Nin





Uno vive così, protetto, in un mondo delicato, e crede di vivere.
Poi legge un libro, L’amante di Lady Chatterley, per esempio, o fa un viaggio, [...] scopre che non sta vivendo, che è ibernato.
I sintomi dell’ibernazione sono facili da individuare:
primo: inquietudine, secondo: quando l’ibernazione diventa pericolosa e può degenerare nella morte: assenza di piacere. Questo è tutto.
Sembra una malattia innocua. Monotonia, noia, morte.
Milioni di uomini vivono in questo modo, o muoiono in questo modo, senza saperlo. Lavorano negli uffici. Guidano una macchina. Fanno picnic con la famiglia. Allevano bambini.
Poi interviene una cura “urto”, una persona, un libro, una canzone, che li sveglia, salvandoli dalla morte.

I diari







9.3.13

Erica Jong




la schiava migliore non ha
bisogno d’esser picchiata.
Si picchia da sè.
Non con una frusta di cuoio,
o con bastoni e verghe,
non con un randello
o con un manganello,
ma con la frusta fine
della sua stessa lingua
e il battere sottile
della sua mente
contro la sua mente.
Chi può infatti nutrire per lei metà
dell’odio che nutre essa stessa?
e chi può eguagliare la finezza
degli insulti che si rivolge?
Anni di allenamento
occorrono per questo.
Venti anni
di auto-indulgenza
e negazione di sè;
finchè il soggetto si ritiene una regina
e pure una mendicante-
le due cose allo stesso tempo.
Deve dubitare di sè
in tutto fuorchè l’amore.
Deve scegliere appassionatamente
e malamente.
Deve sentirsi perduta come un cane
senza il padrone.
Deve riferire tutte le questioni morali
al proprio specchio.
Deve innamorarsi di un cosacco
o di un poeta.
Non deve mai uscire di casa
se non celata sotto il trucco.
Deve portare scarpe strette
perchè sempre ricordi di essere schiava.
Non deve dimenticare
che è radicata nel terreno.
Benchè sia svelta nell’apprendere
e riconosciuta intelligente
il dubbio che istintivamente ha di sè
la deve rendere così debole
che si applica brillantemente
a mezza dozzina di opere d’ingegno
e così abbellisce
ma non cambia
la nostra vita.
Se è un’artista
e quasi quasi è un genio,
il fatto stesso d’avere questo dono
deve riuscirle così penoso
che si toglie la vita
piuttosto che vincerci.
E dopo la sua morte, piangeremo
e ne faremo una santa.











6.3.13

Alessandro Baricco






..."Non è che la vita vada come tu te la immagini. Fa la sua strada. E tu la tua. Io non è che volevo essere felice, questo no. Volevo... salvarmi, ecco: salvarmi. Ma ho capito tardi da che parte bisognava andare: dalla parte dei desideri. Uno si aspetta che siano altre cose a salvare la gente: il dovere, l'onestà, essere buoni, essere giusti. No. Sono i desideri che salvano. Sono l'unica cosa vera. Tu stai con loro, e ti salverai. Però troppo tardi l'ho capito. Se le dai tempo, alla vita, lei si rigira in un modo strano, inesorabile: e tu ti accorgi che a quel punto non puoi desiderare qualcosa senza farti del male. E' lì che salta tutto, non c'è verso di scappare, più ti agiti più si ingarbuglia la rete, più ti ribelli più ti ferisci. Non se ne esce. Quando era troppo tardi, io ho iniziato a desiderare. Con tutta la forza che avevo. Mi sono fatta tanto di quel male che tu non puoi nemmeno immaginare"...



Oceano Mare